Ludovico Landolfi ha pubblicato, da poche settimane, un breve romanzo umoristico «Fuga dal settimo piano» per Fernandel, ispirato liberamente al racconto di Dino Buzzati, «Sette piani». Un’occasione, ben riuscita, per parlare, con leggerezza, della malattia mentale e del disagio sociale. Lo abbiamo intervistato.

«Fuga dal settimo piano» è la storia di un gruppo di persone ospedalizzate in una clinica psichiatrica,Villa Quercia, perché sofferenti di patologie diverse. In questo edificio sui generis, al primo piano ci sono i malati meno gravi, più si sale e più le condizioni di salute dei pazienti si fanno serie, fino ad arrivare al 7° piano, un reparto in cui non si sa cosa succeda veramente. Ludovico Landolfi ha scelto l’umorismo per raccontare le vicissitudini del protagonista e dei suoi compagni di malattia. Con sequenze rapide, tra una scena e l'altra, e una scrittura scorrevole e curata, ci racconta una storia strampalata, - ma forse non poi così tanto -, in cui il malessere psicologico, le ossessioni e la solitudine hanno un ruolo centrale nelle vite di queste persone.

Accento romagnolo, capelli e occhi scuri, sigaretta tra le mani, Ludovico Landolfi ha accettato di rispondere alle nostre domande:

«Diciamo subito che Ludovico Landolfi è uno pseudonimo. Perché hai fatto questa scelta?»

«Volevo sentirmi libero di scrivere qualsiasi cosa, ma allo stesso tempo volevo tutelarmi professionalmente, visto che faccio anche un altro lavoro».

«Probabilmente perché ad un certo punto il protagonista, in cui forse tu ti sei identificato, sorprendentemente dichiara: «Amo la droga»?»

«Il messaggio è rivolto ad un lettore adulto, non volevo essere né frainteso né giudicato, per questo motivo ho scelto uno pseudonimo, anche se con i social non è difficile scoprire chi sono».

«Come è nata l’idea del libro?»

«Ho vissuto 10 anni a Roma. Sono stati anni belli ma anche difficili. Ho avuto la fortuna di conoscere delle persone fantastiche con le quali ho condiviso tantissimi momenti. Di rientro in Emilia Romagna volevo far loro un regalo, ho cominciato a scrivere il libro e, a poco a poco, i personaggi sono diventati gli amici romani, con nomi e cognomi reali, ma con paure e ossessioni immaginarie o amplificate. Volevo celebrare la nostra amicizia».

«Un punto di forza del libro è sicuramente la scelta di raccontare, con leggerezza, la malattia mentale, facendo sorridere il lettore»

«A Roma ho sperimentato difficoltà psicologiche importanti, dalle quali sono riuscito a fuggire, grazie alle persone che mi sono state vicine. Il libro, dunque, in parte è autobiografico. Il tono leggero, da un lato mi ha permesso di dare sfogo completamente alla mia fantasia, dall’altro, non fa sentire al lettore la pesantezza del tema, il disagio. La storia rimane neutra, dall’inizio alla fine. Non ci sono prese di posizione nel testo».

«Dino Buzzati nel racconto «Sette piani», a cui ti sei liberamente ispirato, descrive un edificio di più piani in cui i malati meno gravi si trovano in alto e i casi disperati al primo. Tu hai deciso di fare il contrario, come mai?»

«Adoro Buzzati e il suo modo di scrivere. In «Sette piani», mi aveva colpito molto l’idea di un ospedale con livelli diversi di malattia. Nel racconto di Buzzati però, la scrittura è spesso angosciosa ed il protagonista sempre da solo. Il racconto è stato un espediente per cominciare a scrivere, però a me piaceva di più l’idea dell’ascesa, perché poi immaginavo la fuga».

«A proposito del protagonista, lui sogna in continuazione di farsi una canna e non ci riesce mai, c’è un collegamento con l’autore?»

«Sicuramente i sogni. Quello di fumare una canna, in effetti, è un sogno che faccio in modo ricorrente. Negli anni a Roma, la droga mi ha fatto compagnia, mi ha anche creato dei problemi, ma non rinnego nulla».

«La casistica dei pazienti presenti in clinica è abbastanza interessante, c’è la signora Giroldini che accarezza i mandarini, Giovanni Leporale che si considera morto, la signora Grifone che fa lezioni per accrescere l’ansia perché fa bene alla pelle..., che fantasia che hai!»

«In realtà sono tutte persone che esistono e che ho conosciuto, la mia fantasia le ha trasformate».

«Come è andato il libro fino ad adesso?»

«Ho ricevuto commenti positivi. Ogni persona mi ha dato letture diverse del libro, e questo mi ha sorpreso molto».

«Un’ultima domanda: durante il soggiorno in clinica, tra i ricoverati ci sono molti conflitti e incomprensioni. Stranamente però, durante la fuga, scatta un’improvvisa solidarietà tra di loro, addirittura, come scrivi tu, si formano pure delle coppie. Era la gabbia che scatenava i conflitti?»

«Come ho già detto, credo moltissimo nel valore dell’amicizia, per me era un finale quasi scontato… dalla gabbia, reale o immaginaria che sia, dalla sofferenza mentale possiamo salvarci solo grazie ad un amico. Questo è il mio messaggio».

Consigli di lettura

  • Una famiglia del Nord Italia, tra l’inizio di un secolo e l’avvento di un altro, una metamorfosi continua tra esodo e deriva, dalle montagne alla pianura, dal borgo alla periferia, dai campi alle fabbriche. Il tempo che scorre, il passato che tesse il destino, la nebbia che sale dal futuro; in mezzo un presente che sembra durare per sempre e che è l’unico orizzonte visibile, teatro delle possibilità e gabbia dei desideri.

  • Daria è la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre, che sulla soglia dei cinquant'anni scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontarle la loro storia. Tutto passa attraverso i corpi di Ada e di Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza. Le parole attraversano il tempo, in un costante intreccio tra passato e presente. Un racconto di straordinaria forza e verità, in cui ogni istante vissuto è offerto al lettore come un dono.