Da quando frequento con una certa assiduità i territori complessi della narrativa, ho cercato di migliorare la mia capacità di scrittura non solo scrivendo (sembra un’affermazione ovvia ma non lo è), ma anche studiando i grandi della letteratura.
Non ho letto solo i loro capolavori ma anche i manuali di scrittura che alcuni di essi hanno scritto. Non sempre questi ultimi possono essere considerati dei veri e propri manuali – per la mancanza di organizzazione dei contenuti in forma saggistica tradizionale – quanto piuttosto delle raccolte di considerazioni sulla scrittura, di suggerimenti, in alcuni casi quasi delle teorie del romanzo. In tutti i casi si tratta di testi frutto delle loro esperienze personali in qualità di scrittori che hanno fatto la storia della narrativa internazionale.
Di questi manuali-non-manuali si potrebbe fare un lungo elenco, ma lascio a voi l’onere e il piacere di esplorare il web per rintracciarne titoli e autori (non senza darvi un paio di nomi: Pontiggia e Pamuk). Molte di queste letture possono rivelarsi illuminanti, altre possono lasciare indifferenti, altre ancora sistematizzano meglio ciò che sperimentiamo sulla nostra pelle (un toccasana per un’indole insicura). Ma qui, nello spazio che mi è concesso, mi piacerebbe portare all’attenzione di chi mi legge un testo davvero interessante, considerato ormai un punto di riferimento fondamentale, a partire dal quale si possono fare molteplici considerazioni sulla scrittura. E non mi riferisco solo a considerazioni di tipo tecnico, ma anche di ordine filosofico. Il testo in questione ha per titolo Un ragionevole uso dell'irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività. È la raccolta di una serie di conferenze, lezioni, incontri con studenti tenute da Flannery O’Connor negli anni ‘50 del secolo scorso. Prima di prendere a prestito qualche parola di questa grande scrittrice americana per fare un paio di riflessioni utili sul processo della scrittura narrativa, mi sembra doveroso dire qualcosa sulla sua triste esistenza terrena.
Malata di Lupus eritematoso sistemico, che ha ereditato dal padre morto della stessa malattia quando Flannery aveva solo 15 anni, quest’ultima ha dovuto subire lo stesso destino del genitore spegnendosi nel 1964 a soli 39 anni. Nei pochi anni che ebbe modo di vivere, tra dolori, ripetuti ricoveri e interventi chirurgici, trovò il tempo (e la forza) di scrivere 32 racconti, 2 romanzi, alcune prose d'occasione e più di 100 recensioni di libri, senza contare le interessantissime lettere che si trovano nella raccolta di short essay di cui ci occupiamo qui. Vista l’importanza storica del personaggio vi rinvio alla lettura degli innumerevoli siti web che ne delineano la biografia e ai saggi critici sulla sua scrittura dura ed efficace.
Nel testo in oggetto, O’Connor affronta diversi aspetti della scrittura narrativa, tra questi un tema interessante è quello che riguarda la progettazione di un romanzo o di un racconto. Il titolo della sua raccolta di saggi potrebbe essere tradotto in altri termini come un invito a predisporsi all’incertezza. Mi spiego meglio usando le parole della stessa O’Connor, la quale dice:
“Dubito siano in tanti gli scrittori che quando si mettono all'opera sappiano già che cosa vogliono”.
Ovviamente questa affermazione, sotto certi aspetti volutamente paradossale, porta con sé molta verità. Chi ha affrontato con costanza e con un approccio professionale la scrittura “creativa” sa cosa intende O’Connor. Nonostante sia necessario avere un’idea chiara di ciò che si intende scrivere o almeno un piano di massima da seguire, rimane sempre una quota sostanziosa d’imprevedibilità nel processo di scrittura. È difficile da spiegare, ma vi assicuro che spesso il primo a esser sorpreso da ciò che sta accadendo ai personaggi è proprio il loro autore. Ci sono traiettorie impreviste che il racconto prende senza che ci sia stata una vera e propria premeditazione da parte dello scrittore. I personaggi, le situazioni, i contesti entro cui i protagonisti si muovono, gli episodi primari e più spesso quelli secondari, certe svolte della trama, la comparsa di dettagli sorprendenti ma alla fine utili allo sviluppo della storia, tutti questi elementi quindi possono essere degli imprevisti che bisogna saper riconoscere come importanti nel momento in cui compaiono sotto la nostra penna. Bisogna dunque predisporsi all’imprevisto per saperlo gestire con attenzione ed evitare di perderlo anche se risulta a primo acchito secondario.
La raccolta di saggi della O’Connor è stracolmo di frasi simili che andrebbero scolpite sulle pareti del nostro studio. Una di queste, con il suo linguaggio privo di fronzoli, risponde a una delle prime domande che gli esordienti della scrittura si pongono, ovvero da dove prendere le idee per un racconto o un romanzo? Ecco cosa ci dice la scrittrice:
“Chiunque sia sopravvissuto alla propria infanzia possiede abbastanza informazioni sulla vita per il resto dei propri giorni. Se non riuscite a cavare qualcosa da una esperienza ridotta, probabilmente non vi riuscirà neanche da una più vasta.”
Questo non significa che dobbiamo riportare sulla pagina bianca la nostra biografia nell’assurda convinzione che sia degna di nota per chiunque. Le nostre vite sono spesso ordinarie, simili cioè a quelle di molti altri uomini e donne in giro per il mondo. Ad essere sincero anche molte biografie di personaggi noti che mi è capitato leggere, si sono rivelate noiose come le loro vite. Non sempre infatti il successo è un argomento valido per sostenere l’idea di scrivere (o farsi scrivere) la propria autobiografia. Più corretto, a mio avviso, sarebbe interpretare le parole di Flannery O’Connor come un invito a riconoscere nella propria infanzia tutti quei temi sui quali è possibile costruire sopra un racconto, magari usando con intelligenza esperienze di vita, piccoli dettagli, ambientazioni familiari, personaggi che hanno costellato la nostra vita di bambini, parenti strambi, abitudini particolari, eventi a loro modo straordinari. Usare tutti questi elementi all’interno del meccanismo narrativo in equilibrio tra verità e finzione, mischiare tutto, così da rendere vivido il racconto, verosimili i personaggi e i contesti entro cui si muovono, realistiche le situazioni, avvincenti gli eventi. Un’altra strategia è d’usare con arte la lingua per raccontare la propria vita, se proprio ci siamo decisi a farlo, così da renderla lettura interessante anche per quelli che non rientrano nel vostro albero genealogico. A titolo d’esempio di quest’ultima e complicatissima pratica, vi consiglio la lettura di Tu, sanguinosa infanzia di Michele Mari.
Nonostante la sua raccolta di saggi sia piena di consigli pratici e sebbene abbia anche lei insegnato in scuole di scrittura creativa negli Stai Uniti come altri scrittori, la stessa O’Connor ha avuto parole critiche nei confronti di quelli che si sono offerti come maestri di quest’arte: “Con un buon insegnante diversi best seller si sarebbero potuti prevenire.” Si potrebbe estendere il concetto anche agli editor, i quali negli ultimi anni affollano le case editrici dettando le linee editoriali e i titoli da immettere nel mercato, con il risultato che spesso un autore che ha venduto tanto finisce con lo scrivere sempre lo stesso libro, dando fondo a tutti i cliché narrativi e linguistici di cui è in possesso per rimanere stabilmente in alto nelle classifiche. I nomi metteteli voi, purtroppo gli esempi non mancano. Magari una cosa si può aggiungere, usando le parole di un altro grande della letteratura mondiale, Amos Oz: “Io non posso insegnarvi a scrivere, ma posso insegnarvi a cancellare.” Quest’affermazione merita il suo spazio nella vostra parete di aforismi per ricordare che l'attaccamento a ciò che si è scritto è pratica tanto diffusa quanto malsana.
Senza limiti di spazio si potrebbe continuare a lungo su questa china, prendendo in prestito le parole di Flannery O’Connor per riflettere sui processi della scrittura. Prima di chiudere e rimandare alla raccolta in questione (non tralasciate le sue lettere), ricordo che la nostra autrice si occupa anche di questioni più tecniche legate alla scrittura, condensando le proprie riflessioni in una serie di aforismi indimenticabili. Nel gioco – solo in apparenza paradossale – di invogliarci a scrivere portando alla luce gli elementi di difficoltà insiti nella scrittura, direi che il più significativo di tutti è il seguente:
“Quasi tutti sanno che cos'è una storia, finché non si siedono a scriverne una.”
I libri di Flannery O'Connor:
Un brav'uomo è difficile da trovare, Minimum Fax 2021
Un ragionevole uso dell'irragionevole, Minimum Fax 2019
La saggezza nel sangue, Garzanti 2002.
Solo a presidiare la fortezza, Einaudi 2001.
Tutti i racconti (2 voll.), Bompiani 2001.
La schiena di Parker, Rizzoli 1999.
Il cielo è dei violenti, Einaudi 1994.