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Lo scrittore di origini italiane, Vincenzo Todisco, ha recentemente pubblicato in francese per Zoe «L’enfant lézard» (traduzione di Benjamin Pécoud), romanzo scritto in tedesco (Das Eidechsenkind, Edition Blau 2018) e tradotto in italiano dallo stesso autore l’anno scorso per Dadò con il titolo «Il bambino lucertola». Una storia che potrebbe sembrare surreale ma che è, invece, veritiera e rispolvera, 60 anni dopo, gli anni più bui della Svizzera in politica d’accoglienza.

 

Il bambino lucertola non ha un nome, è un bambino qualsiasi, figlio di stagionali venuti dall’Italia che lo tengono nascosto in casa, dentro un armadio o dovuque non possa essere visto da occhi estranei, per paura di essere denunciati alle autorità.

Sono gli anni Sessanta, anni in cui tanti immigrati italiani arrivano in Svizzera, e sono gli anni in cui si prepara l’iniziativa Schwarzenbach, che prende il nome dal politico svizzero di destra che voleva ridurre drasticamente il numero di lavoratori stranieri nel paese; l’iniziativa, però, sarà rigettata dal popolo nel 1970. Sono gli anni in cui, per evitare che questi uomini restino anche quando non servono, e per scongiurare che si integrino con la gente del luogo e che non vadano più via, viene vietato loro di portare con sé i figli e le mogli, se queste non lavorano. Le condizioni di vita sono durissime: la distanza da casa, le stanze di fortuna dove alloggiare alla bell’e meglio, gli orari di lavoro estenuanti e i figli giù al paese d’origine. Tanti cedono alla tentazione di portarli su, sognano che possano crescere in Svizzera, li nascondono o li lasciano in istituti in attesa di poter ridare loro la libertà e un futuro migliore.

Vincenzo Todisco ne Il bambino lucertola, racconta questa agghiacciante realtà. Il suo bambino è un corpo curioso che a poco a poco impara a camuffarsi, ad appiattirsi e a sgusciare via in caso di pericolo. È un corpo d’animale, che tanto ricorda la bestialità dell’Iguana di Anna Maria Ortese, con gambe, mani e piedi darwinianamente adattate alle necessità: hanno forme proprie, che consentiranno al bambino spostamenti rapidi ovunque, affinché la lucertola possa vivere anche fuori dal suo appartamento. Così che tutti gli altri inquilini dell’edificio faranno, a poco a poco, parte del suo unico mondo, dove non esistono però scuola, documenti, visite mediche; in una sola parola, normalità.

Non c’è desiderio di vendetta né rabbia nelle pagine Todisco, difatti la Svizzera non è mai citata, è, piuttosto, il paese di accoglienza e questo, forse, perché 60 anni dopo gli stessi uomini e le stesse donne hanno trovato il loro futuro tra queste terre e realizzato, probabilmente, il loro sogno. Anzi, c’è il bisogno di ricordare la solidarietà trovata qua e là, perché non tutti denunciavano e molti aiutavano.

La scrittura di Vincenzo Todisco è asciutta, rapida, e ben accompagna il dramma del bambino selvaggio a cui, dopo tempo, non servirà aprire la porta, perché sarà ormai incapace di uscire. Il romanzo è la storia di una malattia creata dall’impossibilità di vivere, di un trauma generato dal sentirsi non voluto, inappropriato, da nascondere. È sì, il dramma del passato ma che sa tanto di presente: i sans-papiers, gli immigrati respinti alla frontiera, i minori non accompagnati di cui non si conosce né nome né età. Sembra proprio che anche oggi si debba passare dall’inferno prima di poter, forse un giorno, avere una vita normale.